Vi spiego la re-industrializzazione dell’America voluta da Trump (non so se riuscirà nell’impresa)


Quali sono i veri fini interni dei dazi esterni decidi da Trump. Fatti, problemi, sfide e incognite. Il punto di Sergio Giraldo tratto da X

Le puerili reazioni celoduriste (Bruxelles, Parigi, Berlino) e le analisi viziate dai conflitti di interessi (il mainstream) cercano di occultare il senso di ciò che sta succedendo a Washington e, di riflesso, nel resto del mondo.

Questo perché se i suddetti agenti spiegassero con chiarezza che cosa sta accadendo dovrebbero anche confessare di aver cavalcato, avallato, propagandato, imposto le storture della globalizzazione che hanno impoverito l’Europa, e dovrebbero ammettere di essere rimasti con il cerino in mano.

Ciò che sta accadendo è che gli Stati Uniti vogliono porre fine alla globalizzazione, almeno quella che abbiamo conosciuto sinora. Si tratta di un passaggio storico epocale e non delle follie dell’Imperatore.

Gli enormi surplus commerciali di paesi come Cina e Germania sono accumulati grazie a sotto-investimenti nazionali e deflazione salariale, cosa che alla lunga indebolisce le loro economie.

Gli Usa, grazie al dollaro, godono di flussi finanziari in entrata sui loro titoli di debito, flussi che gli consentono di comprare beni da tutto il mondo, ma comportano la demolizione della propria capacità industriale. Questa combinazione non è più sostenibile dagli Stati Uniti. L’esorbitante privilegio del dollaro è diventato insostenibile.

Lo sforzo di Washington oggi è quello di riequilibrare l’economia americana, rinforzando la produzione nazionale di beni e tagliando la domanda di dollari dall’estero. Ma non è una novità.

Già dal 2008 sia repubblicani che democratici avevano iniziato a criticare questo modello. Trump nel suo primo mandato aveva già agito in tal senso, Biden ha mantenuto molti dei dazi messi da Trump, ne ha aggiunti altri, ha lanciato prima il Buy America e poi l’IRA, ovvero un ciclo di maxi-sussidi alle aziende all-american.

Donald Trump, con i dazi e i suoi modi diretti, sta accelerando una tendenza che era già in atto e che proseguirà anche dopo la fine del suo mandato.

In poche settimane, anche prima del 2 aprile, gli effetti sono stati dirompenti. La riduzione forzata del deficit americano comporta contraccolpi seri per i grandi esportatori.

La Germania ha fatto in due mesi una revisione costituzionale per riformare il freno al debito, la Cina ha avviato da tempo una diversificazione dei mercati e sta avviando un sostegno alla domanda interna, sia pure con enorme cautela.

Molte aziende, europee ed asiatiche (dai paesi Asean in testa) stanno pensando di trasferirsi negli Stati Uniti per restare in quel mercato.

Trump sta agendo in base a questo disegno e lo fa per due motivi. Il primo è che può farlo. Il secondo è che la spinta a questo cambiamento va oltre la sua figura. È un progetto epocale che riguarda il dollaro e che ovviamente comporta molti rischi, molti costi e numerose variabili.

È facile che qualcosa possa andare storto e ci aspettano alcuni anni di ristrutturazione mondiale. Non è detto che la re-industrializzazione americana riesca.

Ma bene o male è lì che arriveremo, anche se ci volesse più tempo del previsto. Il che significa che anche i paesi europei, se vogliono sopravvivere (e si suppone che lo vogliano) dovranno concentrarsi maggiormente sul mercato interno, avviare investimenti e sostenere salari e domanda.

Questo comporta che la Germania debba abbandonare o seriamente ridimensionare il modello di sviluppo su cui ha contato per decenni (economia export-led sostenuta da bassi salari, zero investimenti netti, austerità). Berlino deve iniziare a fare investimenti, aprendo la sua economia sinora compressa e protetta dal dazio implicito dello Schwarze Null e della deflazione salariale.

Nonostante l’inizio, non è detto che riuscirà a farlo, per freno culturale o per cordoni sanitari politici attorno a certe forze.

Conoscere il contesto è importante: se le cose stanno così, è opportuno che l’Italia trovi una sua strada per seguire il flusso della storia senza restarne travolta



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