Alla cerimonia di insediamento di Donald Trump John Elkann non c’era. Ma aveva visto il neo presidente americano quattro giorni prima a Washington in un faccia a faccia servito per spianare la strada al gruppo Stellantis in America nell’era dei dazi. Il nipote dell’Avvocato non soltanto ha fatto una donazione da un milione di dollari per la cerimonia che ha dato l’avvio al secondo mandato Trump: soprattutto gli ha annunciato l’intenzione di investire 5 miliardi nella produzione di vetture negli stabilimenti Usa.
Non a caso, in quel periodo, la Casa Bianca pubblico un inequivocabile post su X: «La rinascita manifatturiera americana è qui. Benvenuti nell’età dell’oro». Sottolineando che l’amministrazione aveva già raggiunto uno dei suoi obiettivi rilanciando le barriere commerciali: spingere le imprese a produrre negli Stati Uniti, se vogliono continuare a fare business da queste parti. Una regola alla quale non può sottrarsi il made in Italy.
L’America è un mercato molto ambito dagli italiani: qui ci sono almeno 2mila aziende di imprenditori del Belpaese, con investimenti diretti intorno ai 40 miliardi di dollari. Senza dimenticare che qui esportiamo beni per 66 miliardi. Con il ritorno dei dazi, chi non è già negli States – e sono già presenti, soltanto per fare qualche nome, colossi come Barilla, Diasorin, Essilux, Ferrero, Leonardo, Menarini o Zegna – deve sbarcare rapidamente. Spiega Simone Crolla, consigliere delegato della American Chamber of Commerce in Italy: «Da un lato, c’è la spinta di programmi come il Select Usa, che aiutano gli imprenditori ad aprire attività in America, dall’altro c’è la pressione dei dazi di Trump. Ma gli italiani sono contenti di produrre qui, perché l’economia cresce e c’è il più grande mercato consumer al mondo».
Il tema è diventato scottante per Illy, che guarda all’America non solo come mercato dove già esporta il 20 per cento della sua produzione. Cristina Scocchia, ad di Illycaffè, ha spiegato che «se il caffè sarà una delle categorie merceologiche su cui i dazi verranno imposti, è ovvio che noi abbiamo iniziato a valutare la possibilità di produrre anche negli Stati Uniti, ovviamente esclusivamente per il mercato interno». Sul fronte dell’alimentare il gruppo Pini, dopo averla rilevata e salvata dal fallimento, starebbe studiando un piano per allargare la produzione di salumi del marchio Vismara anche in America. Sul ritorno delle tariffe è stato previdente il gruppo friulano Roncadin: una decina di giorni dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca, ha inaugurato – dopo un investimento di 30 milioni di euro – un suo stabilimento a Vernon Hills, sobborgo a Nord di Chicago, dove a regime lavoreranno cento addetti per sfornare a regime 30 milioni di pizze surgelate gourmet. L’operazione dovrebbe far schizzare il fatturato dell’azienda negli Usa da 78 a 200 milioni di dollari.
LA SIDERURGIA
Complici i dazi di Trump nel 2018, uno dei settori che ha più investito negli Usa è stata la siderurgia. In questa direzione potrebbe rafforzare la sua presenza diretta negli States il gruppo Arvedi, che proprio qui – sempre nel 2018 – ottenne un pubblico ringraziamento dallo stesso Trump per aver contribuito con la sua tecnologia Esp a salvare la storica acciaieria di Us Steel corporation a Braddock, in Pennsylvania.
I dazi potrebbero trasformarsi in un’occasione per Prysmian, leader mondiale nella produzione, fornitura e progettazione di cavi per telecomunicazioni ed energia.
L’ad Massimo Battaini, oltre a definire il Trump 2 «una buona notizia per gruppi come il nostro che hanno stabilimenti negli Stati Uniti e generano (una buona parte di ricavi) lì», ha rilanciato il progetto della doppia quotazione a Milano e a New York e non ha escluso nuove acquisizioni di produttori negli Usa, dove già può contare su una trentina di stabilimenti.
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